Il nastro bianco

Villaggio tedesco, 1913. Una serie di fatti incresciosi travolgono la piccola comunità, dal medico che si spacca la spalla in un incidente ippico al figlio ritardato dell'ostetrica, picchiato e terrorizzato da un gruppo di ignoti. Mentre tutti cercano i colpevoli, c'è modo di osservare i vari caratteri e di formare dei sospetti. L'unica persona limpida del paesetto, il maestro, indica come responsabili un gruppo di bambini, ma è costretto ad allontanarsi.
Questo è il primo film di M. Haneke che vedo. Mi ero tenuta discosta dal regista per tema di essere disturbata dal suo immaginario inquietante, e avevo ragione. Inquietante è esattamente il termine che caratterizza la pellicola, inquietanti sono le vittime -ognuna delle quali nasconde laghi di putridume sotto una facciata rispettabile- e ancora di più i carnefici che, ragazzini nel 1913 sembrano già pronti per rappresentare il peggio del peggio della gretta classe media che negli anni Trenta ha sostenuto gli istinti peggiori dell'umanità fino ad elevarli a sistema.
Il nastro bianco del titolo doveva servire a rammentare a due di questi bambini la necessità di rimanere puri e astenersi dalla bestialità, ma non sembra avere molto successo.
L'atmosfera di sconforto è ulteriormente definita dal bianco e nero ruvido, da cinema neorealista (niente a che vedere con le morbide tinte felliniane, tanto per dirne una), dal trucco svilente e dai costumi mortificanti, nonché dal commento sonoro deprimente.
Dal punto di vista visivo il film è ineccepibile, con fotografia raffinata, inquadrature perfettte e una voce narrante che ricorda un po' il Kubrick di Barry Lindon, ma a mio parere difetta di coinvolgimento emotivo e di un significato univoco. Haneke vuole dirci che il male si manifesta nei figli per punire le colpe dei padri? Che nel nostro mondo bieco non c'è salvezza né bontà? Che tempi di violenza sotterranea corrompono le anime, formando dei futuri adulti pieni di odio e pronti al sopruso? Che l'orrore e la bestialità sono il prodotto di una società ipocrita e profondamente disgregata dove i datori di lavoro frodano sistematicamente i loro sottoposti e i medici di campagna abusano della loro stessa prole? 
Non credo che farò una seconda incursione nel curriculum di Michael, mi basta così.

Commenti

  1. capolavoro!
    e da quanto ti chiedi, vuol dire che è un film che fa riflettere. non offre risposte, ma domande.
    questo deve fare il grande cinema

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  2. Io mi sono recentemente fatto una scorpacciata di film di Haneke, e devo dire che in un certo senso hai ragione. Conviene vedere un suo film quando si è molto allegri, per non lasciarsi sovrastare dalla cupezza dei temi trattati.

    D'altro canto la qualità della sua produzione è sempre altissima, e se davvero rinunciassi a lui, credo che ti perderesti uno tra i più interessanti registi attivi.

    In realtà il coinvolgimento emotivo ci sarebbe, e sarebbe pure molto forte, ma bisogna entrare in sintonia con la storia, cosa che potrebbe non essere facile. A me mi ha facilitato il fatto di essere arrivato al Nastro bianco dopo una mezza dozzina di suoi altri film, per cui sapevo già, più o meno, dove voleva andare a parare.

    Vero è anche, come dice il cannibal kid qui sopra, che Haneke punta più a fare domande che a dare risposte, e lascia che sia lo spettatore a trarre le sue conclusioni.

    Però ti suggerirei di pensare al film come una metafora. Nota che, pur essendo ambientato all'inizio del secolo scorso, è raccontato in prima persona dal maestro quando ormai è molto anziano. Potrebbe essere che costui stesse facendo un parallelo tra quello che stava succedendo ai tempi in cui narrava e quel lontano episodio della sua giovinezza? Potrebbe essere che i ragazzetti non fossero banalmente "cattivi" ma si comportassero così perché non riuscivano ad esprimere in altro modo il loro dissenso?

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